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Social, challenge e bambini

3 Febbraio 2021 - Cultura e vita digitale

[Reading Time: 4 minutes]

La miccia di questo pezzo è stata accesa dalla tragedia della bambina di Palermo, ma anche da tutte le altre che sono venute prima e che, smemorati e superficiali quali siamo, abbiamo già dimenticato. Di questa storia ne ho parlato sui miei social, proprio in quei giorni, e ho pensato che valesse la pena tornarci sopra qui. Oggi riesco a scriverne con più distacco, ma ammetto che sul momento c’è stato un mescolarsi di lacrime e di nausea (un buon mix di tristezza e rabbia) che mi hanno accompagnata mentre leggevo i vari articoli e molte opinioni sparse.

Quelli che verranno, qui sotto, sono solo i miei “due centesimi” e non per sminuirli, ma solo perché questi temi andrebbero affrontati nel quotidiano. Se ne dovrebbe parlare di continuo, online, nelle scuole, al bar, tra amici, in famiglia e non solo tra i soliti quattro gatti nel momento in cui l’ennesima tragedia ci fa ribaltare occhi e stomaco. A chi si prende la briga di ingoiare bile e imbarcarsi in questi discorsi, però, capita spesso di sentirsi dire che è pesante, che vede e vive le situazioni ingigantite rispetto a ciò che sono, e che comunque nessuno potrà mai risolvere i problemi degli altri. Sembra quasi, alla fine, che girarsi dall’altra parte dovrebbe essere messa nella top-five delle scelte, magari solo per potersi fingere stupiti, indignati e sconvolti quando qualcosa o qualcuno ci crolla accanto. D’altronde ognuno se la deve cavare per i fatti suoi, no? Cazzate, sono solo cazzate.

Io non ho mai sposato questa teoria e, a dirla tutta, credo di non riuscire neppure a capirla fino in fondo, sempre che ci sia qualcosa da capire. Tutto ciò che succede sotto questo cielo, più o meno direttamente, deve riguardare chiunque; sentirsi isolati e abbandonati, semplicemente, non dovrebbe essere contemplato. E se c’è una cosa che non mi stancherò mai di dire è questa: la società in cui viviamo sta andando alla deriva e la responsabilità è di ognuno di noi.

I social, questi mostri

Non è la prima volta che qualcuno muore per “colpa” dei social – si dice così, no? –, ma siamo onesti, si muore per motivi futili e stupidi da sempre. I social non hanno fatto altro che aumentare la portata del rischio perché ci hanno reso tutti più esposti. Le piattaforme sono strumenti e, film futuristici e apocalittici a parte, gli strumenti non uccidono e non si suicidano; gli esseri umani sì.
Di pari passo all’incremento della nostra esposizione a un mondo sempre più ampio e, se vogliamo, del tutto fuori dalla portata del nostro controllo, avremmo dovuto potenziare la consapevolezza, la conoscenza, l’attenzione. E invece? Invece non ce n’è fregato niente, ci siamo buttati a occhi chiusi in della roba di cui non capivamo poi molto e non abbiamo pensato che ci sarebbero state delle conseguenze. Eppure oh, le conseguenze ci stanno sempre, da sempre. Non contenti, a questo mondo abbiamo esposto i bambini senza alcuna cintura di protezione. I bambini non erano quei piccoli esseri che, almeno sulla bocca di tutti, sono i tesori più preziosi che si possano avere?

Una delle tante verità è che lo sviluppo delle nuove tecnologie e la loro diffusione di massa hanno assunto in tempi molto stretti una grande velocità a cui non eravamo abituati, tantomeno pronti e con cui, guardandoci un po’ intorno, scopriamo amaramente di non essere ancora del tutto capaci di misurarci. In aggiunta abbiamo completamente sottovalutato la vulnerabilità propria di noi umani, non di tutti ma di tanti e soprattutto delle giovani leve con menti spugnose ancora in divenire. Non l’abbiamo considerato questo aspetto, non ci siamo fermati ad analizzarlo, ad accettarlo e a capire come non fare per non lasciarci travolgere.

Non sono i social a essere mostri, siamo noi a essere stupidi.

Tornando al dramma della bambina di Palermo, tutto si fa più devastante quando avvenimenti simili toccano i più piccoli. Diciamolo, a voce alta, fuori dai denti e senza troppi giri di parole, a 10 anni non si può morire per una challenge su un social, ma prima di questo dobbiamo dire che non si può lasciare che una creatura di 10 anni si chiuda da sola in bagno (o in una camera qualsiasi) con uno smartphone, e facendo un altro passo indietro non si possono lasciare gli smartphone in mano ai ragazzini, a meno che non ci si prenda il tempo di stare accanto a loro mentre li usano (cosa che, siamo seri, a volte si dovrebbe fare anche con molti adulti).

I social, e la rete più in generale, sono la finestra spalancata sul mondo del “tutto è possibile”, offrono la chance di stabilire connessioni e relazioni da cui nascono occasioni costanti di sviluppo e di crescita, professionali e umane. Altrettanto bene, però, sono terreno fertile per piante infestanti in cui si può rimanere impigliati, a qualsiasi età. Sono labirinti in cui ci si perde con una facilità che non ha pari. Davanti alle tragedie, quindi, è giusta la rabbia che serpeggia in rete, è giusto il bisogno di sfogarsi, è giusto persino il senso di ingiustizia e impotenza da cui ci lasciamo sopraffare. Ancora più giusto, però, è incanalare tutto questo in una direzione che conduca verso un uso cosciente e maturo delle opportunità a cui ci troviamo davanti.

E quindi, mo che facciamo?

Quando ci si misura con simili eventi la cosa più immediata – ma non di certo la più umana – è cercare i colpevoli e i primi a subire il processo sono le piattaforme e gli adulti responsabili del minore.

Io non ho figli, un po’ per scelta mia e un po’ per scelta della vita, quindi non oso immaginare il dolore che possa provare chi ne perde uno e quanto sia ancora più devastante se tutto il mondo gli punta il dito contro.

Ho compiuto da poco 43 anni e, se ripenso a tutte le volte in cui da ragazzini abbiamo fatto cose che avrebbero potuto finire in tragedia, mi chiedo come abbia fatto ad arrivare sana e salva fino a qui. Ogni generazione trova i suoi millemila modi per rischiare di rovinarsi la vita e spesso è solo questione di fortuna se si riesce a invecchiare. Forse è difficile ammetterlo, prima ancora rendersene conto, e poi infine accettarlo, ma come ho già detto prima la responsabilità è di tutti. Quando una ragazzina muore per aver accettato una sfida su un social, perdiamo tutti.

Da donna adulta – che non ha figli ma ha nipoti in quantità e un sacco di altri bambini a cui vuole bene – che vive ogni giorno la rete e i social, e non solo per divertimento, dico a tutti quelli come me “non smettiamo mai di parlarne, non molliamo il colpo, non demonizziamo lo strumento e neppure chi lo usa. Seminiamo il più possibile coscienza e consapevolezza, anche quando siamo stanchi, anche quando ci verrebbe solo da piangere e ancor più da bestemmiare.”

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